In questi ultimi anni si fa grande statistica sulle cause principali degli incidenti stradali e della loro variabilità nel tempo. In realtà l’equivoco risiede nella stessa definizione di “incidente” per un evento che nella totalità dei casi non è una fatalità, ma la conseguenza di un comportamento colposo.
Nell’ultimo anno al primo posto tra le cause di sinistri ci sono la guida distratta, il mancato rispetto della precedenza e del semaforo rosso. Ci sono poi tutte quelle violazioni che nell’immaginario collettivo costituiscono un cancro dal quale però ciascuno (secondo la classica personalizzazione della morale) è inevitabilmente affetto, come l’uso del cellulare alla guida, persino per scrivere messaggi di testo o consultare il social network preferito.
Sfugge in quest’ottica fuorviante quella che è la sola vera ed unica causa di qualunque sinistro stradale: la velocità.
Un fattore che non solo influisce sulla causazione del sinistro, ma pure le sue conseguenze ed i relativi risvolti penali e civili.
Solo una riduzione della velocità può di fatto ridurre l’incidenza dei sinistri stradali sulla circolazione ed il drammatico impatto sociale di queste disgrazie ormai tanto frequenti da non destare più alcuno sconcerto, divenendo un qualcosa di inevitabilmente connesso all’uso della strada.
L’Art. 141 del Codice della Strada è vago nel definire un precetto generale secondo cui l’utente della strada deve mantenere una velocità tale da garantire il controllo ed eventualmente l’arresto del proprio veicolo di fronte a qualsiasi situazione prevedibile; la norma inevitabilmente sboccia in una personalizzazione di tale limite indefinito di velocità edulcorato da una inevitabile sovrastima delle capacità proprie e del mezzo che si conduce, condita peraltro da un pizzico di ignoranza delle leggi della fisica e del funzionamento del veicolo.
Grave è l’equivoco formato dalle statistiche diramate dalla stampa: è vero che negli ultimi anni la percentuale di sinistri con esiti mortali è andata sensibilmente diminuendo, ma tale tendenza non è il frutto di una maggiore sicurezza della circolazione, quanto piuttosto dell’ormai continuo rinnovo del parco macchine e dunque della diffusione di sempre più efficienti dispositivi di sicurezza attiva e passiva di bordo. Dall’altro lato la statistica sui sinistri mortali non tiene conto di quanti, pur strappati alla morte da soccorsi sempre più rapidi e da tecniche e terapie sino a poco tempo fa inimmaginabili, rimangono gravemente invalidi; talvolta andando incontro ad un destino peggiore della morte stessa (ma non facendo più statistica…).
In realtà la frequenza e la gravità degli “incidenti” non va diminuendo, anzi è in continuo aumento, specie in virtù dell’indiscriminata diffusione ed utilizzo dei mezzi a motore.
La “sicurezza” introdotta dai moderni veicoli sortisce poi un effetto psicologico inverso e deleterio: infonde cioè maggiore tranquillità al conducente che si sente legittimato a superare quei limiti di prudenza che il più delle volte farebbero la differenza tra la vita e la morte, ovvero tra una quotidianità serena ed il peso di un evento di tale gravità da condizionare per sempre l’esistenza.
Nella medesima direzione si muove la campagna mediatica volta a sottolineare quei sinistri, di particolare impatto sociale, determinati dall’ubriaco o dall’extracomunitario di turno: il cittadino ormai è portato a generalizzare tali comportamenti al di fuori della propria sfera personale, per cui un bicchierino di troppo, come 10 km/h in più, vengono dalla gente “normale” dissociati da quegli eventi e da quelle persone, sottovalutando così le proprie responsabilità e sopravvalutando le proprie capacità.
Si instaura così un meccanismo di sovrastima della propria “sicurezza” che induce, giocoforza, a superare quei limiti già richiamati, che possono costituire il confine tra il bene ed il male.
Un superamento che nella stragrande maggioranza dei casi sfocia nel viaggiare a velocità eccessive rispetto al contesto e alle proprie capacità, con gravi conseguenze nei confronti degli utenti deboli della strada, non protetti chiaramente dalle moderne misure di sicurezza già citate.
Un ciclista o un pedone infatti non traggono vantaggi da airbag e sistemi di frenata automatica, ma subiscono i nefasti effetti di un urto anche a “soli” 50 km/h oggi come ieri.
L’unica vera prospettiva di miglioramento è la costruzione di una coscienza sociale finalizzata alla comprensione dei pericoli derivanti dalla velocità relativamente al contesto circostante: un progetto in controtendenza con la diffusione di dati statistici “drogati” e inevitabilmente forieri di eccessiva confidenza nella guida.